02/02/16

MAKING A MURDERER (di Moira Demos e Laura Ricciardi)




Making a Murderer, in questo momento, è la serie da vedere. Quella che è sulla bocca di tutti e quella che, se non l'hai vista, non sei nessuno.  E giustamente! perché è una roba che ti colpisce come un calcio nelle palle e t’inchioda alla poltrona come un thriller adrenalinico. 

Invece è un documentario, anche se non di quelli che ti raccontano l’accoppiamento delle locuste o la pesca degli orsi, bensì di quelli che ti sbattono sul grugno nientepopodimeno che la fallibilità del Sistema Processuale e il miraggio del concetto stesso di Giustizia all'interno di uno dei più importanti stati democratici del mondo occidentale: gli Stati Uniti d’America. 


Making a Murderer” è la risposta di Netfix a quel capolavoro, simile e pur diversissimo, che è stato “The Jinx”, che, a mio parere, resta decisamente superiore; anche se la potenza della storia raccontata da Moira Demos e Laura Ricciardi è talmente deflagrante che mette tutti i difetti e le sbavature della serie decisamente in secondo piano.

Making a Murderer” racconta un’incredibile epopea giudiziaria. Quella occorsa a Steven Avery di Manitowoc, Wisconsin. Nel corso della recensione ci saranno spoiler vari, ma per il momento mi limito a dirvi che la vicenda segue un arco narrativo di oltre 30 anni e racconta la storia di un uomo, con mezzi economici e risorse intellettuali assai modeste, che ha dovuto confrontarsi, in più occasioni, con il sistema processuale americano. 

Ed entrambi ne sono usciti malissimo!


Ma non aspettatevi il già citato “The Jinx”. Di cui non si può non parlare se si vuole comprendere l'effettivo valore e la reale importanza della serie di cui stiamo trattando. I due documentari, infatti, hanno presupposti e vogliono raccontare due cose molto diverse. “The Jinx” è stato il one-man-show di Robert Durst. Veramente difficile immedesimarsi in lui, dati i suoi natali, la sua storia e il suo carattere. Inoltre, il lavoro di Andrew Jareki spiazzava per la sua studiata e disorientante neutralità; una neutralità che, fin dalle prime sequenze, virava verso l'ambiguità più feroce e riusciva a stimolare il peggior voyeurismo e giocare con la moralità stessa dello spettatore. Questa caratteristica, al contempo disturbante e intrigante, costituiva, almeno per il sottoscritto, il vero punto di forza della serie. Simpatizzare per Durst; appassionarsi per i dettagli più reconditi della sua complessa personalità; affezionarsi ai suoi tic, ai suoi sfoghi e, allo stesso tempo, temere che quell'eccentrico signore con i pulloverini e le polo fosse effettivamente il sadico killer psicopatico colpevole di ben tre omicidi era una sensazione al contempo spiazzante e coinvolgente. La curiosità per la vicenda, vista l’assoluta e rigorosissima imparzialità degli autori, sovente diventava frustrata morbosità. 
The Jinx” giocava con l’istinto e l’empatia dello spettatore, costringendolo costantemente a fare il punto su quello che stava osservando e quello che stava provando. In certi momenti era veramente inquietante, perché ci si trovava a sospettare della legittimità dei propri stessi sentimenti. 

The Jinx” costituisce una delle più consapevoli e lucide riflessioni sul ruolo e sull’impatto dei mass media nella vita di tutti noi. E lo fa non ricorrendo alla fiction, ma impiegando magistralmente e rigorosamente proprio uno degli strumenti tipici dei mass-media: il ducumentario-dossier. “The Jinx” ci ha fatto capire – di più, ci ha fatto provare – con subdola genialità, come si possa empatizzare per un killer o nutrire disgusto per un innocente semplicemente a comando. Questa è stata la grande sfida che la serie ha stravinto. Ha completamente innovato il linguaggio documentaristico, trasformandolo in una sorta di thriller-crime, senza però mai tradire la sua essenza più pura e più vera. 




Qui no. "Making a Murderer" è un documentario classico quanto a linguaggio, idee e regia. Si compone di immagini di repertorio, interviste, vecchie fotografie di famiglia. Segue una struttura tutto sommato lineare, giocando talvolta su particolari momenti ad effetto, concomitanti con particolari svolte delle indagini o delle vicende processuali.

La grande differenza rispetto a "The Jinx" (che aveva in Bob Durst il suo mattatore assoluto) è che in “Making a Murderer” il vero protagonista non è Steven Avery, non è la sua famiglia e non sono nemmeno le sue (presunte o effettive) vittime. Il protagonista è l’intero Sistema Giudiziario Americano. E la storia di Steven Avery sconvolge, perché, a differenza di Mr. Durst, ognuno di noi potrebbe ritrovarsi nei suoi panni. Abbiamo parlato mille volte di quanto l’american dream sia una palla micidiale e di come l’America rurale non sia affatto un paradiso incontaminato di benessere e sorrisi dai denti bianchi, bensì un luogo dove troppo spesso germoglia la più bassa ignoranza e la più tremenda miseria. Ci abbiamo riso in “Justified” e in “Fargo”, un po’ meno in “True detective” e pochissimo in “Mud”, ma raramente gli Stati Uniti ne sono usciti così malconci. Lo Stato del Wisconsin e la cittadina di Manitowoc difficilmente riusciranno a recuperare in termini d’immagine e credibilità. 

Il sogno americano!!!
La vicenda di Steven Avary è qualcosa di talmente clamoroso che sembra finta. È talmente allucinante che uno dei suoi avvocati difensori è arrivato a dichiarare pubblicamente di sperare che il suo cliente fosse effettivamente colpevole; e non perché stava facendo della retorica da quattro soldi, ma perché, l’alternativa era troppo terrorizzante e inaccettabile. Per questa ragione, forse, le due registe (Moira Demos e Laura Ricciardi) non sono riuscite a rimanere imparziali, assumendo una posizione partigiana molto decisa e arrivando addirittura a contribuire alle spese processuali di Avery. È comprensibile ed è umano; però, se fai il tifo per una parte, non puoi giocarti la carta della suspense con lo spettatore solo perché tira di più. Perché è disonesto e non è coerente con quello che credi e che stai facendo. Non ho nulla contro i documentari partigiani. Ma se sposi una causa e prendi una posizione ben precisa, devi dichiararlo da subito e, soprattutto, devi saper tenere desta la mia attenzione e la mia partecipazione emotiva senza tradire la tua linea. Voglio dire: se credi alla teoria del gomblotto e alla corruzione della polizia, non puoi raccontarmi la scoperta di ogni nuova prova incriminante come se fosse un twist di M. Night Shyamalan. Non sono un fan sfegatato di Michael Moore, ma almeno a lui non è mai venuto in mente di far sembrare Bush intelligente solo per piazzare un colpo di scena. Se non sei in grado di farlo, allora gira una fiction. Un documentario richiede un rigore e una coerenza che non sempre la Demos e la Ricciardi sono riuscite a mantenere. 

La serie, inoltre, risulta un po’ lunga e, in certi casi, ridondante: per nove puntate mantiene un registro lentissimo - quasi esasperante - fatto di interviste, sequenze di immagini, paesaggi... poi di nuovo interviste agli stessi personaggi, di nuovo le stesse immagini, di nuovo gli stessi paesaggi... e poi ancora e ancora e ancora, quasi a voler diventare narrativamente e visivamente una sorta di metaforone del calvario di Avery… ma allora non capisco perché mi devi gestire il decimo episodio riassumendo in fretta e furia quasi dieci anni di appelli, istanze alla Corte Suprema e ricorsi vari. Molte questioni importanti, tra l'altro, rimangono completamente in sospeso o finiscono nel dimenticatoio, mentre altre, del tutto irrilevanti, vengono ripetute allo sfinimento... alla cinquemillesima volta che ho visto passare sullo schermo la stessa vecchia fotografia del giovane Avery sorridente, mi è venuto da pensare ho capito il concetto, grazie!!!.


Sono onesto, “The Jinx” è un capolavoro di regia, messa in scena, montaggio e scrittura. La vicenda occorsa a Robert Durst è potentissima, ma il racconto e il documentario di Jareki lo sono ancora di più. “Making a Murderer”, invece, ti inchioda alla poltrona e ti incolla allo schermo "solo" per la potenza incredibile della sua storia; se non si fosse trattato di un caso così clamoroso, dubito che il lavoro della Demos e della Ricciardi avrebbe avuto una tale eco mediatica e un tale successo di pubblico. Anzi. Il loro principale merito è stato quello di essere nel posto giusto al momento giusto e di averci creduto. Che comunque non è poco. 

Ciò premesso, "Making a Murderer" racconta una vicenda pazzesca, che prende alla pancia e lascia un senso di disagio profondo, che permane a lungo; anche molto tempo dopo il termine della visione.




La verità più sconvolgente che emerge da "Making a Murderer" è che, alla fin fine, non è importante se Steven Avery sia innocente o colpevole; se sia solo un povero cristo sfigatissimo o invece uno psicotico serial killer; ovviamente è importante saperlo, ma il punto nodale della questione è un altro. È che, a prescindere da quello di cui Avery è stato accusato, che ha effettivamente commesso e che è possibile o meno provare in un'aula giudiziaria, non è tollerabile in nessun paese del globo – figuriamoci nell’autoproclamatasi più grande democrazia del mondo – che il Sistema agisca e tratti un proprio cittadino come ha trattato lui. Innocenti o colpevoli, tutti abbiamo diritto ad un processo equo, a regole imparziali e a giudici competenti. La storia di Avery ci dimostra come il Sistema sia un Golia talmente grosso, forte e invincibile che nessuna fionda potrebbe mai lontanamente scalfirlo; figuriamoci abbatterlo. Steven Avery potrebbe essere anche peggiore di Jack lo Squartatore, ma il Sistema deve essere comunque migliore di lui. Se il Sistema diventa peggiore dei criminali che persegue, allora perdiamo tutti. 

Making a Murderer” ci dice che non esiste il giusto processo, che le giurie sono composte da bifolchi prevenuti, che gli avvocati di ufficio sono il male incarnato, che le prove non contano un cazzo e che la presunzione di innocenza è solo una favola da raccontare alle matricole di Legge.
Soprattutto, ci dice che il Sistema gioca solo per sé, protegge solo se stesso ed è pronto a distruggere chiunque provi anche solo a metterlo in discussione. Alla faccia della Giustizia, dell'Imparzialità e delle Regole uguali per tutti.






Making a Murderer” ci mostra come il pregiudizio cannibalizzi qualunque prova e buon senso: in 30 anni, nessuno dei protagonisti della vicenda ha mai cambiato la propria idea su Avery. Non la sua famiglia, non quella delle vittime, non i suoi concittadini. Da un lato i sostenitori, dall'altro gli accusatori; da una parte i complottisti dall’altra i forcaioli. Sempre per principio e a prescindere da qualunque prova o nuova sconcertante rivelazione. Pensiamo di esserne immuni? Che mi dite di Annamaria Franzoni? e O.J. Simpson? Quello che sappiamo, lo sappiamo solo dai titoli di qualche giornale, letti distrattamente al bar o in spiaggia, eppure siamo tutti pronti a giurare per la loro colpevolezza, o innocenza. Si chiama pregiudizio e nessuno ne è veramente libero. È un male? Finché condiziona le nostre opinioni al bar, solo fino ad un certo punto; ma se quelle opinioni, drogate da preconcetti e informazioni deformate, diventano quelle di uno dei 12 giurati che, completamente avulsi ad ogni conoscenza giuridica, dovranno decidere in merito alla vita, alla libertà e al destino di un loro pari…. beh, c’è ben poco da stare allegri.




GIUDIZIO SINTETICO: Documentario molto "de pancia" e di grana grossa. Qualche difetto, qualche furbata, qualche imprecisione e qualche lungaggine di troppo, ma andrebbe mostrato nelle scuole; con il monito: cercate di fare meglio. Agghiacciante.

VOTO: 8



P.S.Questa recensione ha costituito la base per la puntata "Un Uomo chiamato Cavillo" di "Serial K: Le serie tv in radio", una trasmissione radiofonica che tratta di serie televisive e che scrivo e conduco assieme a quattro carissimi amici: Tommy, Giulio, Dodi e Eugenia. Tutti i podcast li potete trovare su Mixcloud; le puntate le potete sentire in diretta ogni lunedì, dalle 20:30 alle 21:30 su Radio Città del Capo (FM 94.700 96.250); tutte le info, le comunicazioni, i commenti e le foto le trovate su FB. Vi aspettiamo. 







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