14/01/13

DRIVE (di Nicolas Winding Refn)



"Dammi ora e luogo e ti do cinque minuti. Qualunque cosa accada in quei cinque minuti sono con te. Qualunque cosa accada un minuto dopo sei solo. Io guido e basta". Sembrerebbe una frase ad effetto come tante; la solita battuta... del solito duro... nel solito film di inseguimenti e sparatorie. Eppure il meraviglioso e struggente incipit di “Drive” ci schiaffa in faccia una verità inconfutabile e assoluta: non siamo di fronte al solito film di battutacce, inseguimenti e sparatorie.

I titoli di testa (in rigoroso fucsia) scorrono sulle immagini aeree di una Los Angeles notturna; le mille luci dei neon e dei grattacieli brillano come stelle. Una macchina, come un ordinato globulo rosso, percorre strade che sono arterie. Il pilota ha una faccia anonima e indossa guanti di pelle. È impassibile. Nessuna particolare tensione o agitazione traspare dal suo volto. L’adrenalina e la velocità evocati dal titolo sono annientati dalla lentezza delle riprese. “I'm gonna show you where it's dark, but have no fear” canta Kavinsky su una base elettronica che mette i brividi. Allacciate la cintura e non parlate all’autista perché il viaggio conduce nei recessi dell'animo umano, fino al termine della notte…

I film di Refn sono un pugno nello stomaco. Lo stesso regista danese li definisce "atti di violenza" mirati ad infondere emozioni durature dentro agli spettatori. I suoi film non si guardano… si subiscono, si patiscono, si penano. La poetica di Refn, uno dei più eccezionali ed interessanti registi viventi, evoca il fantasma di Artaud in questo caso contaminato da suggestioni noir e tocchi pop… credetemi, quella pronunciata da Ryan Gosling non è affatto una battutaccia.



"Io guido e basta" è l’estrinsecazione di un codice esistenziale. È l'autoimposizione di un distacco emotivo. Come una sorta di distanza di sicurezza dal prossimo. Cinque minuti sono il limite invalicabile del codice. È il tempo massimo che il misterioso protagonista è disposto a concedere al suo prossimo. Cinque minuti per curarsi di qualcun altro, sia pure esso un delinquente o un rapinatore. Cinque minuti e poi ognuno per la sua strada, ognuno per se stesso, ognuno alla propria solitudine.

Io guido e basta” non è dunque una battuta, ma la chiave di violino dell’intera partitura; senza di essa manca il nesso per dare un senso alla pellicola. Gosling guida e basta perché non vuole o non sa essere altro e cinque minuti sono il massimo che può concedere all’empatia.

Come un moderno samurai Gosling è solitario e silenzioso; non ha un nome e non prova emozioni. Segue il suo percorso. Segue il suo codice: io guido e basta.



Il film, vincitore del premio per la Miglior Regia al 64° Festival di Cannes, è piaciuto un po’ a tutti anche se per i motivi sbagliati. Da quello che ho sentito e potuto leggere in giro, ho rilevato che “Drive” sia stato pressoché unanimemente considerato come un bellissimo omaggio al cinema action degli anni 70; un noir metropolitano ben confezionato, ma un po’ semplicistico.
Comprendo i motivi del fraintendimento, ma sono convinto che il film sia tutt’altro.
Certo, i topoi del genere ci sono proprio tutti: c’è un protagonista solitario e misterioso, una fanciulla da salvare, ci sono macchine veloci, non manca la violenza ed il dress code è quello giusto… e poi c’è Los Angeles che così nera e bella non è mai stata.
Tutto vero, ma non bisogna correre il rischio confondere il contenitore col contenuto.

Ve lo concedo. Presa di per sé, la trama non risulta certamente indimenticabile e originale (ma non si criticava Nolan proprio per il contrario?): c’è un tizio che sa guidare da dio; lavora in un’officina e sogna di fare il pilota; guadagna qualche extra come stuntman presso gli studios hollywoodiani e arrotonda lo stipendio svolgendo incarichi di autista per occasionali rapinatori notturni. Ai quali, appunto, concede cinque minuti. Cinque minuti per entrare, svaligiare quel che si riesce e fare ritorno in auto. Un secondo di troppo e sei fuori.
Tutto liscio come olio da motori, finché il pilota non si invaghisce della bella vicina di casa e, ovviamente, cominciano i guai.
Se non vi fosse altro, se il film fosse veramente tutto qui, perché esso risulterebbe così struggente, così intensamente bello, così potente?

Perché Refn è un autore con due palle così; perché i suoi personaggi sono fatti di sangue e carne e anima; non di mera celluloide; perché il film strizza l’occhio al noir, indossa i panni del genere (pur non rispettandone i codici) per indagare la natura umana, le sue idiosincrasie, le sue inspiegabili e allo stesso tempo semplicissime meccaniche. “Drive” è prima di tutto un film d’amore struggente, meraviglioso, puro, crudele, gratuito, doloroso. È un film sulla solitudine, sull’onore, sull’impasse di un’esistenza congelata dentro un vuoto cosmico. È un film sulla speranza e sull’eroismo. La speranza di non rimanere soli e l’eroismo di essere umani (come canta la struggente e strepitosa canzone che fa da colonna sonora al film).



Ovviamente, tutto ciò non è alieno al noir. Ma Refn, come dicevo, gioca col genere utilizzandolo più come impalcatura scenografica che non come codice: il noir, per propria natura, non è mai risolutivo (come invece lo è invece il giallo), ma conduce sempre dentro un disordine maggiore di quello da cui si è partiti. Nel noir non ci sono mai vie d’uscita, non ci sono lieti fine e non si cambia mai il mondo. Il noir testimonia come il male sia ineluttabile, la lotta destinata comunque alla sconfitta e l'esistenza mai appagata o risolta.
Da questo punto di vista, “Drive” non è sicuramente un noir nel senso filologico del termine: il nostro pilota, infatti, risolve esistenzialmente il proprio empasse e, pur ad un prezzo assai elevato, ottiene quello che vuole. Ma “Drive” non è neppure un action, di cui non condivide lo stile, né il ritmo, né la retorica.

Refn gioca coi generi così come coi contrasti: notte e giorno, violenza e dolcezza, velocità e lentezza, amore e morte. Tali contrasti, tuttavia, non esaltano il ritmo, non sono funzionali agli sbalzi dell’adrenalina come in qualsiasi film d'azione che si rispetti. Essi rappresentano l’anima del protagonista, la sua duplicità schiacciata dentro una gabbia di inedia, di immobilismo (proprio lui, un pilota) e di totale incomunicabilità.



Il nostro pilota è paralizzato, inchiodato a una vita che non lo emoziona, bloccato in un mondo da cui non riesce ad uscire. Nemmeno le rapine provocano un brivido; nemmeno gli incidenti che si procura come stuntman riscaldano il sangue.
Nei suoi occhi è assente la sbruffonaggine del campione, la lucida follia dell’impavido che sfida la vita per la troppa passione; Gosling sembra il personaggio di un film di Cassavetes o di Antonioni che si è perso dentro le scenografie di un film di Carpenter o di Mann. Gosling non è Steve Mcqueen e nemmeno Kurt Russell. E non è una questione di recitazione e nemmeno “di faccia”. È il suo personaggio ad essere un alieno per le logiche del genere.

Come già detto, il misterioso pilota è un moderno samurai. Non ha un nome e la sua esistenza è definita unicamente dalla fedeltà al proprio codice: nessuna empatia, nessuna implicazione emotiva, nessun rapporto col mondo circostante. Lui guida soltanto; mai per due volte di seguito; mai per un secondo di troppo. È un professionista freddo e calcolatore. Non si scompone perché non gli frega un cazzo di niente. Non teme per la propria vita (in fondo fa lo stuntman), figuriamoci per quella degli altri.
Ma il codice del samurai non costituisce affatto l’adesione al cammino che conduce al palazzo della saggezza, bensì la catena che impedisce la libertà del sentimento: io guido e basta. È come spingere a tavoletta col freno a mano tirato.

Ma poi succede qualcosa.
E qui sta il genio: nascosto dentro la cornice pop di un finto film di genere, Refn piazza una storia d’amore che tramortisce come una sprangata e trova pure il tempo di girare la scena di bacio più bella di tutti i tempi.

L’amore per la graziosa vicina (Carey Mulligan) è infatti la scossa che sfonda la gabbia, che divelle le sbarre, che libera finalmente un’esistenza troppo a lungo compressa.
Chissenefrega della plausibilità della vicenda. Chissenefrega se qualcuno sarebbe veramente disposto a sacrificare la propria vita per una sconosciuta che gli ha sorriso sul pianerottolo. L’amore è un simbolo, è una forza primordiale capace di infrangere il codice. Il samurai ha scoperto la bellezza di essere ronin: senza padrone e senza precetti. Libero di scegliere, capace finalmente di provare qualcosa. Ora non può più limitarsi a guidare soltanto...

GIUDIZIO SINTETICO: "Drive" è la storia di un uomo bloccato che riesce a rivoluzionare la propria vita grazie alla forza di un amore improbabile. Refn è l'unico regista al mondo che poteva raccontare una simile storia infilandoci crani sfracellati a martellate, un giubbotto bianco con scorpione dorato sulla schiena che è già oggetto di culto e pure regalandoci una comparsata di Ron Perlman, l'attore con la faccia più truce della storia del cinema.


 
Semplicemente, il più bel film del 2012!


 
VOTO: 9











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